Costruire il consenso è manipolazione della realtà? 0


In questi giorni tiene banco l’affaire Cambridge Analytica di cui abbiamo parlato qui.

Si tratta di una società che ha seguito Trump nella sua campagna elettorale mettendogli a disposizione i dati di 50 milioni di utenti che abitano su Facebook.

Quindi è venuto giù il cielo. Lo “scandalo” del furto di dati al fine di costruire consenso ha riempito i giornali e generato una lunga discussione, guarda un po’, proprio sui social.

Ma il punto su cui vorrei soffermarmi in questo post è un altro.

In politica la percezione della realtà é più importante della realtà.

Questo assunto sembrerebbe figlio di una società dove la post-verità e le fake news entrano spesso a gamba tesa nelle nostre vite, nei nostri pensieri, nelle nostre decisioni.

In realtà, ed è mia opinione, non è così. In tutti i sistemi, da quelli democratici a quelli totalitari, la costruzione del consenso ha sempre messo radici nella costruzione di un “senso comune”, cosicché la condivisione di valori culturali e tradizionali, le paure, le speranze possono essere utilizzati per mascherare la realtà. (Userei il plurale “le realtà” ma mi sia concessa questa semplificazione).

Veniamo all’oggi per un attimo. Sul Corriere della Sera sono apparsi questi dati raccolti da Pagnoncelli:

«Se chiediamo agli italiani quanti sono gli immigrati, la risposta è il 30% mentre in realtà sono il 7% dei residenti. Così sui disoccupati, che sarebbero il 48% per gli intervistati mentre sono l’11%, o sugli over 65, percepiti come il 48% degli abitanti quando sono il 21%».

Sarebbe troppo semplice adesso fare 2+2 e sostenere che questo “senso comune” costruito, volontariamente e involontariamente, in questi anni da forze politiche e mezzi di informazione ci ha restituito una percezione della realtà completamente fuori asse.

Non per nulla alcuni dei temi che hanno dominato, anche in quest’ultima campagna elettorale, sono stati:

  • immigrazione
  • lavoro/reddito di cittadinanza (o simili)

Non è un azzardo sostenere che questi due temi hanno “spostato” parecchi voti e coscienze, ma non è nemmeno un’analisi esaustiva, che in questo momento non mi interessa portare avanti. (Di “Vita liquida e voto fluido” ho parlato qui)

Torno al punto. Il racconto dei fatti è più importante dei fatti?

Sembrerebbe di sì, ma non è una questione nuova.

Oggi siamo “vittime” della tecnologia degli algoritmi ma da sempre, anche nell’era pre-internet, nelle società di massa si è proposta una percezione condivisa del mondo che comportano determinate scelte, soprattutto in senso politico.

Basta fare un salto nella storia e se torniamo ai tempi delle narrazioni ideologiche dei partiti di massa e alla visione religiosa della società, non stenteremo a renderci conto che la loro funzione era plasmare le coscienze. Non c’erano algoritmi, inizialmente ci furono i racconti orali e scritti, poi la carta stampata, fino a quando non sono entrati nelle nostre case con radio e televisione.

Sì certo, non “rubavano” dati sensibili ma la regola che sta di fondo è la stessa. Per costruire consenso devi costruire un racconto della realtà coerente al tuo messaggio e non per forza corrispondente alla realtà.

Una conclusione non conclusiva.

In fondo il mestiere de “Comunicatore politico”, o dello Spin Doctor se preferite, non è altro che trovare le chiavi per influenzare, condizionare nel comportamento, nell’atteggiamento o in una decisione.

Su questo non butterei ombre di eticità, sulla costruzione del consenso attraverso il furto di dati sì. Ma in fondo cosa è rubare e cosa è corretto fa esso stesso parte della costruzione del senso comune.

 


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