Comunicazione sui social: come combattere la #Disinformazia? 0


“Comunicazione: come combattere la Disinformazia?” Un’intervista a Francesco Nicodemo.

 

Gli elettori voteranno sempre per un progetto, giusto o sbagliato che sia. Non voteranno contro qualcuno perché qualcun altro dice che ha sbagliato.

Dalla Brexit al duello Trump-Clinton passando per gli errori di Matteo Renzi, ne parliamo con  Francesco Nicodemo esperto in comunicazione e innovazione digitale, attraverso il suo ultimo libro “Disinformazia” edito per Marsilio editori. Un testo che consiglio di leggere a tutti coloro che oggi si affacciano sul mondo della politica, per scoprire quanto sia importante conoscere le dinamiche che oggigiorno governano la rete e quanto la comunicazione sui social possa condizionare il comportamento degli elettori.

 

 

Iniziamo con una domanda scontata ma d’obbligo, cosa vuol dire Disinformazia?

«L’idea è stata dell’editore Marsilio Editori che mi ha proposto questo titolo e mi è sembrato molto azzeccato perché lo si può leggere in due modi: disinformàzia alla russa, cioè l’utilizzo della propaganda a fini di manipolazione dell’opinione oppure disinformazìa alla greca cioè come se oggigiorno stessimo vivendo in una nuova forma di democrazia basata sulla disinformazione.»

Quando nasce l’idea di “Disinformazia”?

«L’idea nasce nel 2016 dopo la vittoria del Vote Leave al referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, noto come Brexit, e la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti d’America, poiché in entrambi i casi tutti i media tradizionali, compresi giornalisti e opinion maker di ogni genere e tutte le élite hanno sostenuto che entrambe le elezioni fossero dipese dall’utilizzo scientifico a scopo propagandistico delle fake news e della disinformazione on line. Per questo sono partito ad analizzare questi due fenomeni per capire in che modo potessero davvero minacciare le liberal-democrazie occidentali. Sono giunto alla conclusione che in realtà non sia così, poiché i risultati elettorali non dipendono dalle notizie false che circolano nel web.»

Quindi di cosa si parla in questo libro?

«Il sottotitolo già descrive il tema del libro, la comunicazione ai tempi dei social media. Si parla dello stato dell’arte della rete nelle nostre vite e di quanto abbia influenzato la comunicazione politica e non solo attraverso i nuovi mezzi di comunicazione.

Si racconta di quanto oggi ognuno di noi è sottoposto da una specie di sovraccarico informativo e come assimiliamo queste informazioni, influenzati dagli algoritmi di diffusione delle notizie che stanno alla base delle piattaforme che utilizziamo e che ci costruiscono intorno a noi una bolla-filtro che ci fa vedere solo ciò che ci interessa di più, ci fa intrattenere solo con le persone con cui interagiamo di più, creando quasi un mondo perfetto ma che, allo stesso tempo, ci fa da filtro impedendoci di visualizzare tutto ciò che si trova al di fuori della nostra bolla. Tutto ciò che non cerchiamo non si vede.

Esiste anche una dinamica umana nel testo, cioè quella dell’omofilia intesa come il desiderio e la volontà di voler avere a che fare con i nostri simili, istinto intrinseco nella natura umana che ci portiamo dentro di noi dai tempi dell’uomo delle caverne.

Il combinato disposto tra l’elemento della machine learning, cioè l’algoritmo che costruisce la nostra bolla utilizzando i dati che noi abbiamo fornito liberamente alle varie piattaforme sul web (poiché nessuno ci frega i dati!), e l’elemento fisiologico dell’omofilia, ci fa ritrovare dentro delle sorti di casse di risonanza, delle vere e proprie camere dell’eco. Il risultato sono conversazioni digitali in cui la nostra voce si aggiunge ad altre come se fosse parte di un coro. Le camere dell’eco sono luoghi in cui le nostre opinioni sono confermate o addirittura rafforzate da altri utenti digitali che hanno opinioni simili o uguali alle nostre. Questo fenomeno porta a tre risultati abbastanza scontati: in primo luogo gli utenti pensano di avere ragione perché tutti la pensano come loro, in secondo luogo se tutti pensano di avere ragione quelli che non la pensano come noi, e che quindi si trovano dentro ad altre bolle, hanno torto automaticamente, infine se un individuo è convinto delle proprie ragioni e delle sue sicurezze e trova solo conferme intorno a se smetterà di cercare informazioni e dati che contraddicano la propria opinione arrivando al punto di cercare solo notizie che rafforzano il proprio pregiudizio, questo è il cosiddetto fenomeno del confirmation bias.

Ma il risultato più preoccupante delle camere dell’eco è che ogni opinione orientata che si sviluppa dentro questi spazi digitali tende a polarizzarsi ed estremizzarsi. Il caso dell’argomento immigrazione ne è un esempio lampante: prendiamo un utente digitale che non conosce il fenomeno e ne è un po’ spaventato. Per questo non lo possiamo definire razzista o xenofobo. Tuttavia se questo stesso utente si ritrova in una camera dell’eco in cui altri soggetti parlano di clandestini e non di migranti, li descrivono come turisti negli alberghi a 5 stelle pagati dal paese di accoglienza a cui vengono forniti smartphone gratis e inoltre ci portano malattie e miseria, esportando fenomeni di criminalità tra i più efferati, allora il nostro utente che non conosceva il fenomeno ed era leggermente orientato verso un atteggiamento diffidente, sarà propenso a polarizzare la sua posizione ed estremizzarla. Lo farà a tal punto che se un domani troverà qualcun altro che attraverso dati empirici dimostra che il fenomeno non risulta nei fatti come glielo hanno sempre descritto lui tenderà a non credergli, anzi quella sorta di smentita rafforzerà la sua convinzione. Questa è la descrizione della camera dell’eco dei cattivisti ma vale ovviamente anche per i buonisti. Questo è il tema della Disinformazia.»

Noi tutti oggi ci troviamo in questo ambiente digitale che ormai è parte integrante della nostra vita, ma se questo è lo stato dell’arte allora come possiamo combattere questo fenomeno della disinformazione?

La comunicazione è un atto politico

«Ci sono 3 strade per combattere la Disinformazia: la via normativa, la via educativa e la via politica. La via normativa la trovo estremamente sbagliata. Si stima che nel 2018 in 60 secondi sulla rete ci siano 973 mila accessi su Facebook, 4.3 milioni di video visti su You Tube, 481 mila Twitter, 38 milioni di messaggi su WhatsApp, 266 mila ore viste su Netflix e 3.7 milioni di ricerche su Google.
Siamo di fronte a un flusso infinito e ingestibile di dati, a un sovraccarico informativo che obiettivamente non può essere ne normato ne bloccato da una legge o da un codice, chi afferma di poterlo fare sta dichiarando una cosa tecnicamente impossibile.
Nel caso in cui un domani il processo tecnologico ci permettesse di farlo, consentendo al legislatore di chiedere ai soggetti gestori delle piattaforme come Facebook o Google di eliminare informazioni false dalla rete (dimenticandosi per un attimo dei danni economici potenziali per queste società tecnologiche che fanno profitti) sarebbe comunque giuridicamente improponibile, secondo i principi delle costituzioni europee, che questo tipo di normativa possa intervenire anche sulla messaggistica personale e privata come per esempio WhatsApp, luogo in cui potranno continuare a diffondersi le notizie false.

Non credo quindi che il ruolo dello Stato sia quello di vietare o meno i contenuti che noi dobbiamo leggere, ma dovrebbe darci gli strumenti adeguati per distinguere un’informazione corretta da una falsa. 

Qui si giunge al tema dell’educazione come via per combattere la disinformazione. L’educazione intesa in due modi: quella digitale – Digital Literacy –  per imparare a comprendere questo ecosistema che non conosciamo e la Media Literacy , cioè consentire alle persone la possibilità di raggiungere la capacità critica di saper leggere le fonti, saper capire le notizie e riuscire a ricostruire una lettura universale del fenomeno senza essere subissato dal sovraccarico informativo che non ti permette di ritrovare il bandolo della matassa. Questo è il principale problema per  quei circa 20 milioni di italiani adulti analogici che hanno scoperto la rete attraverso Facebook, per questo dobbiamo rivolgersi principalmente a loro.

Infine la via politica, la più importante. La rete non deve essere solo un mero strumento di propaganda. Deve essere soprattutto un vero strumento di mobilitazione e partecipazione. 

Noi viviamo questo aspetto digitale della nostra vita non come gruppo o come classe ma come singoli individui, come solitudini. Soltanto la politica con la P maiuscola ci può tirar fuori da questa solitudine e farci sentire di nuovo parte di una medesima comunità di destino e grazie alla rete si può partecipare e cambiare il corso delle cose. Questa è la parte più importante alla lotta alla disinformazione: dare ai cittadini la possibilità presso la rete di essere di nuovo parte integrante di una storia che si sta scrivendo.»

Tu, non molto tempo fa, eri il capo della comunicazione del Partito Democratico e consigliere per la comunicazione presso palazzo Chigi a trazione Pd. Quale giudizio dai alla campagna elettorale social dello scorso 4 marzo del Partito Democratico?

La comunicazione è politica ma la politica non deve essere comunicazione

«Io amo sempre dire che la comunicazione è politica mentre la politica non deve essere comunicazione. Sembra la stessa cosa ma non lo è. La comunicazione è un atto politico e per farla hai bisogno del contenuto, il cosa racconti e poi del come lo racconti, sia esso i colori che scegli per un manifesto o il modo in cui metti insieme le parole nel racconto delle cose che stai facendo. Senza il fatto da raccontare la comunicazione non esiste, ma è anche vero che se tu non comunichi il fatto il fatto non esiste. Questo concetto è profondamente legato al ruolo che un partito dovrebbe avere, non è solo un consiglio per consulenti. La politica invece non può essere comunicazione, non si deve piegare l’atto politico al mezzo di comunicazione. Non si devono fare iniziative politiche per trovare uno slogan o un hashtag su Twitter. Quella roba là è plastica! Non funziona.

Quello che si è capito dalla campagna di comunicazione del Pd è che pur avendo fatto molte cose non è riuscito a comunicarne nessuna e l’unica cosa chiara di quella comunicazione è che i Grillini erano ignoranti e Salvini era un fascista. Evidentemente non è bastato, ma nonostante ciò il Pd non ha cambiato strategia e continua a rincorrere gli avversari, ad andare sul campo e sull’agenda comunicativa degli altri senza mai far capire come la pensano su un qualsivoglia tema, siano esse il punto sui migranti, sulle tasse o sul lavoro. L’atteggiamento “loro sbagliano, hanno torto” non risulta efficace se non dai un alternativa. In una mia intervista per Sky sul documentario “Lo Stato Social” mi sono soffermato sul fatto per esempio che la maggior parte dei tweet del Segretario del Pd Matteo Renzi non erano rivolti a mobilitare l’elettorato per andare a votare per una prospettiva di paese ma erano concentrati a segnalare quanto fossero brutti, sporchi e cattivi gli altri. Lo sappiamo in Italia come funziona, sono 24 anni che Berlusconi è ancora una parte fondamentale sulla quale si basano le campagne di questo paese. Abbiamo esportato questo modello anche negli Stati Uniti, basti pensare al fatto che Trump sia stato accusato delle peggiori nefandezze da Hillary Clinton, ma gli elettori voteranno sempre per un progetto, giusto o sbagliato che sia, non voteranno contro qualcuno perché qualcun’ altro dice che ha sbagliato


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